Il dramma del bambino sostituito

«Sai, sicuramente è come se non mi fossi mai sentita di essere totalmente me stessa e la sensazione di non essere mai abbastanza perché ovviamente non puoi mai giungere alla perfezione di una bambina che a 2 anni era solo una bambina, quindi era la figlia perfetta, l’amore perfetto. Quindi ovviamente io è come se avessi avuto la sensazione di non poter essere mai abbastanza per colmare quel vuoto». (Alice, 26)

La morte di un familiare si configura sempre come un evento critico capace di compromettere l’efficacia di consolidati modelli relazionali in quanto modifica la struttura della famiglia stessa; la perdita riguarda, infatti, la relazione che ciascuno aveva con chi non c’è più e, allo stesso tempo, incide sull’insieme delle relazioni familiari e sui diversi ruoli assunti da ogni membro (Walsh, 2004).

Quando a morire è un figlio si parla di una morte contro-natura: per un genitore, infatti, risulta impossibile immaginare di sopravvivere a colui o colei nel quale aveva riposto le speranze e i sogni e per il quale sentiva di avere una responsabilità (Tagliani & Vizziello, 2014).

Replacement child

Replacement child è un termine che fa riferimento a quei bambini concepiti dai genitori poco dopo la perdita di un altro bambino (Cain & Cain, 1964); generalmente tutti i bambini nati da genitori che hanno già perso un figlio precedentemente sono dei figli di sostituzione, nella misura in cui vengono investiti da aspettative, proiezioni e spostamenti appartenenti al bambino defunto. Attraverso lo studio di sei casi clinici, i due autori hanno evidenziato come il tentativo di rimpiazzo fosse dominato dall’immagine idealizzata del figlio scomparso.

Sulla scia dei primi studi, Krell e Rabkin hanno poi individuato tre tipologie di bambino sostitutivo, ritenendo il nuovo arrivato come una reincarnazione, quindi circondato da aspettative consce e inconsce diffuse (1980): the haunted child che spesso non sa nulla del suo predecessore e la famiglia prova sentimenti di colpa e vergogna; the bound child che si caratterizza per una protezione eccessiva da parte dei genitori; the resurrected child, trattato come una vera reincarnazione del fratello morto. A quest’ultimo gruppo appartengono artisti celebri come Vincent Van Gogh e Salvador Dalì, i quali portavano  lo stesso nome di un fratello deceduto prima della loro nascita.

Secondo Sabbadini (1987) vi è inoltre il rischio di non sentirsi mai pienamente sé stessi: infatti, nonostante non affermi che tali conseguenze siano sempre patologiche, ritiene che un bambino nato e cresciuto in tali circostanze sviluppi problemi nell’area dell’identità del Sé. Anche Grout e Romanoff (2000), a proposito del replacement child syndrome, suggeriscono che ciò non conduce necessariamente alla patologia: spesso, infatti, i genitori tendono ad idealizzare il nuovo arrivato anziché il figlio perso, motivo per cui si parla di “gift child”.

Negli ultimi anni i pochi studi condotti con un approccio qualitativo hanno cercato di descrivere la replacement child syndrome: uno di questi è stato condotto dall’Università degli Studi di Padova (I. Testoni , M. Dorsa , E. Iacona & G. Scalici, 2020)

Ricerca

Obiettivo principale di tale ricerca era indagarne i vissuti emotivi dei subsequent sibilings che presentano la particolarità, però, di portare anche lo stesso nome del fratello o della sorella defunto/a e di capire se in qualche modo l’essere omonimi potesse avere possibili conseguenze in ambito relazionale e/o affettivo. Tale ricerca ha visto la partecipazione di 22 persone, 12 donne e 10 uomini con un’età compresa tra i 21 e gli 80 anni (età media di 48,7) che presentavano il nome o una parte del nome di un fratello o una sorella morti prima della loro nascita.
I decessi del fratello/sorella scomparso prematuramente sono avvenuti principalmente tra i 12 e i 24 mesi, tuttavia, in alcuni casi la perdita si è verificata nel momento del parto fino agli 8 anni del congiunto.
Le narrazioni, sono state raccolte, attraverso delle interviste semi-strutturate e sono state integralmente audio registrate.
Le aree indagate erano principalmente 5:

  1. la storia familiare,
  2. l’elaborazione del lutto,
  3. il rapporto con i genitori e con il fratello scomparso,
  4. la costruzione
    della propria identità personale,
  5. la visione della morte.

Concetto di identità

Delle cinque aree indagate, di sicuro questa appare essere la più importante, in quanto i partecipanti erano chiamati a rispondere in modo diretto su cosa significasse per loro essere omonimi del fratello o della sorella scomparsi prematuramente.
Come osservato dalle interviste, emerge una prima e fondamentale distinzione: coloro la cui identità è stata negata e coloro che invece riferiscono di essere orgogliosi, in quanto quel nome ricordava loro una persona significativa all’interno della famiglia.
Per quanto concerne la sensazione di identità negata, del non sentirsi né unici, né sé stessi, diversi partecipanti hanno espresso rammarico e dolore, in quanto mai totalmente e veramente riconosciuti; a partire da un’identità mai resa singolare e, a ancor di più negata da un nome che apparteneva ad un’altra persona, deriva la possibilità che quel bambino assolva una mera funzione sostitutiva. Da qui il bambino sostitutivo.

Dalle diverse interviste è stato possibile rintracciare quelle che risultano essere le sensazioni che più si ripetono e caratterizzano questo tipo di vissuto:

  • Sensazione di sostituire: alcuni partecipanti sentono di non possedere una propria identità ma di fungere da mera copia di chi non c’è più.
  • Senso di colpa: i figli sopravvissuti percepiscono il peso della loro esistenza in contrapposizione alla morte del fratello.
  • Idealizzazione e competizione: la vita dei partecipanti è stata spesso caratterizzata da una continua rivalità con l’ideale irraggiungibile del defunto.
  • Senso di responsabilità: gli intervistati sentono il dovere di assolvere una funzione salvifica nei confronti dei genitori, da loro e dalle loro azioni dipende la felicità di questi ultimi.

Una buona parte dei partecipanti ha invece espresso orgoglio e onore nel portare il nome del fratello scomparso, il quale però, in diversi casi risultava essere anche il nome del nonno o della nonna, motivo per cui quel nome era in primo luogo attribuito a loro anziché al piccolo defunto. Si costituiva, pertanto, un’idea di continuità e tradizione che in un certo qual modo va preservata e mantenuta e pertanto giustificata. In questi casi non vi è mai stata da parte dei genitori alcuna proiezione del fratello defunto sul nuovo arrivato e questo ha fatto sì che non si verificasse alcuna trasmissione
traumatica.

In ultima analisi, si è osservato un ultimo sentimento: quello della gratitudine in quanto tutti si pongono la medesima domanda: se lui non fosse morto, io ora sarei qui? Nessuno dei partecipanti ha pertanto la certezza che se quel figlio non fosse venuto meno i genitori ne avrebbero voluto un altro.

Per una sintesi

In accordo con la letteratura di riferimento non è possibile affermare che il portare il nome del/della fratello/sorella deceduti conduca di per sé ad un problema nell’area identitaria. 

Diversi, infatti, risultano essere i fattori da prendere in considerazione affinché si vengano a creare le basi per una funzione sostitutiva. Tra questi quelli maggiormente predittivi sono: il lutto del figlio non elaborato, il tempo che intercorre tra la morte del figlio e la nascita dell’omonimo e, soprattutto, il significato che i genitori stessi attribuiscono a quel nome.

Bibliografia

  • Cain, A. & Cain, B. (1964). On replacing a child. Journal of the American Academy of Child Psychiatry, 3, 443-456. doi: 10.1016/S0002-7138(09)60158-8
  • Fava Vizziello, G. (2014). Famiglie in lutto. Padova: CLEUP Editore.
  • Grout, L. A., & Romanoff, B. D. (2009). Replacement children. Encyclopedia of Death and Dying
  • Krell, R., Rabkin, L. (1980) The Effects of Sibiling Death on the surviving Child: A Family Perspective. National Istitutes of Health, 18 (4), 471-477.  doi:10.4037/2013790
  • Sabbadini, A. (1987). Il bambino sostitutivo. Rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni, numero 5.
  • Testoni, I, Dorsa, M, Iacona, E, Scalici, G. (2020) Necronym: the effects of bearing a dead little sibling’s name, Mortality doi: 10.1080/13576275.2020.1807923
  • Walsh, F. (2004). A family resilience frame work: innovative pratice application. Family relation, 51, 130-137.

6 commenti su “Il dramma del bambino sostituito

  1. Loris Pauletto Rispondi

    In qualità di figlio sostitutivo posso affermare che portare lo stesso nome del mio fratello morto (12 anni) problemi di identità me ne ha creati eccome, infatti non venivo chiamato per nome in famiglia perché troppo doloroso per loro ma con un nomignolo, mia madre non mi ha mai chiamato per nome.

    • Maurizio Dorsa Autore articoloRispondi

      La ringrazio per aver condiviso la sua esperienza personale nel portare il nome di suo fratello defunto; nonostante l’esperienza possa sembrare la stessa per tutti, mi sono reso conto attraverso le diverse interviste quanto poi sia soggettivo ed unico tale vissuto.

  2. Elena Rispondi

    Si certo, il vissuto è soggettivo e unico però mi sembra rimanga un comune denominatore : noi figli sostitutivi non esistiamo e si vive per istinto di sopravvivenza . Nasciamo da una madre morta con quel figlio .Un prima ,pieno di luce e sole e un dopo funereo e luttuoso, dov’è il nostro benvenuto al mondo ? Condividiamo la vita all’ombra della perfezione irraggiungibile di un fratello morto e se poi si nasce anche del sesso opposto ti devi anche far perdonare questo dispetto. Mio padre voleva chiamarmi Silvia ,perché amava Leopardi , è chi è lei se non una figlia morta , poi per associazione e scaramanzia hanno scelto diversamente. Non sono solo i genitori che sostituiscono la nostra identità con quel figlio morto, noi stessi scegliamo coscientemente e volutamente di sostituirci ,come e quanto è possibile farlo ad un bambino che per essere visto e “amato” (sopravvivere) deve impersonare l’unico oggetto d’amore insostituibile . Andavo all’asilo quando ho trovato un suo orsacchiotto ,l’ ho preso e l’ ho fatto diventare il mio preferito. L’ho ancora dopo quarant’anni,chiuso dentro l’armadio , simulacro di un fratello e di una tomba. La morte e l’imperfezione ci abitano assieme ai sensi di colpa , il peso delle doppie aspettative da soddisfare e la tragedia ed il vuoto da risarcire. Siamo chiamati a consolare e asciugare le lacrime di una madre che non ci vede e di un padre isolato nel proprio dolore. E’ ovvio che ce ne facciamo carico, diversamente significherebbe morire senza quelle briciole d’amore che così facendo conquistiamo. Possiamo solo comprendere che non è colpa né nostra , né dei genitori in lutto perpetuo, possiamo solo accettare di essere meno , meno perfetti, meno amati . Ma quanta pazienza, comprensione e maturità si può chiedere ad un bambino ? E da adulti dobbiamo fare lo sforzo immane di riconquistare la nostra identità ,il che significa far morire quella che abbiamo costruito , convivere con il lutto della perdita e vivere conoscendo la morte , ma dato che amiamo farci del male, ne cerchiamo anche il senso.

    • Simona Rispondi

      Cara Elena, grazie di aver trascritto questa chiara analisi della nostra infanzia. Io, come te. Amara consolazione é il non sapersi più gli unici condannati a questo destino. Mi solleva leggere di storie analoghe alla mia. Il senso di colpa si allevia un po‘.

  3. Mauro Rispondi

    Caro Loris,
    ottimo articolo, sto facendo una ricerca di Astrogenealogia e vorrei portare questo caso ad un convegno a Gennaio (Ovviamente togliendo tutti i riferimenti per rispettare la privacy). è possibile avere le date, luogo ed ora di nascita dei personaggi coinvolti?
    Mauro Malfa
    (co-autore del libro “Astrogenealogia” ed. De Vecchi)

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