“Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta:
ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni
in cui l’uomo è stato cosa agli occhi dell’uomo”.
(Primo Levi)
Se esiste un posto in cui ciascun bambino possa e debba sentirsi al sicuro quel posto è la propria casa e, di più, quel posto è tra le braccia dei propri genitori. Ma se in quella casa – aldilà della porta che dovrebbe custodire il proprio mondo, in quell’abbraccio che dovrebbe sostenere senza imprigionare – ci si ritrova spettatori-vittime inermi di fronte a prevaricazioni e violenza, allora può accadere che quella naturale fiducia di base ceda il passo alla paura e all’angoscia, arrivando ad invertire la direzione dell’accudimento, attraverso fenomeni di adultizzazione, o, in ogni caso, alterando, forse inesorabilmente, lo sguardo verso gli altri e verso se stessi.
La diversa ottica all’interno della quale nell’ultimo secolo si inscrive la cultura dell’infanzia, ha spostato il limite secondo cui il maltrattamento infantile restava circoscritto nell’ambito dell’abuso fisico e sessuale, a favore di una visione più ampia che comprenda tanto la trascuratezza, quanto forme più o meno esplicite, ma non meno destrutturanti, di violenza psicologica; soprusi difficilmente riconoscibili ma, talvolta, maggiormente dannosi per lo sviluppo emozionale e psichico del bambino, ferite che non lasciano sempre lividi sulla pelle ma che condizionano il modo di guardare al mondo, di stare nel mondo.

Rilevare il non rivelato: la portata del fenomeno
Da qualche settimana l’Italia dispone di una fotografia aggiornata sulla dimensione del fenomeno della violenza che coinvolge i minori. I dati emergenti dalle pagine della seconda indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti, condotta da Terre des Hommes e Cismai, per l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (Agia), realizzata tra luglio 2019 e marzo 2020, su dati del 2018, riguardano un bacino effettivo di 2,1 milioni di minorenni residenti nei 196 Comuni italiani selezionati dall’Istat. Secondo il rapporto risultano essere “401.766 i bambini e ragazzi presi in carico dai servizi sociali in Italia, 77.493 dei quali sono vittime di maltrattamento” […] “La forma di maltrattamento principale è rappresentata dalla patologia delle cure (incuria, discuria e ipercura) di cui è vittima il 40,7% dei minorenni in carico ai Servizi sociali, seguita dalla violenza assistita (32,4%).
Cosa si intende quando si parla di violenza assistita? La prima definizione arriva dal Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia (CISMAI) e trova traduzione nel “fare esperienza da parte del minore di qualsivoglia forma di maltrattamento, realizzato con atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti o minori. Il bambino può farne esperienza direttamente (quando essa avviene nel suo campo percettivo) indirettamente (quando il minore è a conoscenza della violenza) e/o percependone gli effetti. Si include l’assistere a violenza di minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia e ad abbandoni e maltrattamenti ai danni di animali domestici”.
Dunque, non è necessario che il bambino assista ad episodi di violenza; anche il vederne gli esiti, l’essere a conoscenza, perfino immaginare che una persona, con cui sussiste un profondo legame affettivo, viene maltrattata o denigrata, induce nello stesso un forte senso di impotenza, sofferenza e non di rado colpa.
Sebbene episodi di violenza intrafamiliare balzino continuamente agli “onori” della cronaca, il fenomeno della violenza assistita risulta ancora troppo spesso sommerso, sottostimato per innumerevoli ragioni. Il disconoscimento è legato anche in parte alla confusione che ancora esiste, a livello culturale, fra il conflitto di coppia e il maltrattamento nelle sue varie forme che dal conflitto può scaturire.
Ma che cosa distingue un conflitto da una prevaricazione, qual è il confine che segna lo spartiacque tra l’appartenere ad una famiglia ad elevata conflittualità e il rimanere ostaggio di abusi e sopraffazioni? Ciò che permette di distinguere la violenza coniugale da un litigio, non è la frequenza con cui si manifesta, non sono le parole offensive né esclusivamente gli agiti, bensì l’asimmetria nella relazione. In un conflitto di coppia l’identità di ciascuno è preservata, il partner viene rispettato in quanto persona mentre questo non avviene quando lo scopo ultimo risulta essere dominare, annullare, annichilire l’Altro.
Probabili esiti psicopatologici e trasmissione intergenerazionale
L’intensità degli effetti che da tale esperienza traumatica scaturiscono sono destinati ad assumere una connotazione sempre più grave in relazione all’età della vittima, alla frequenza degli episodi e alla loro modalità di svolgimento. È importante sapere che per un bambino gli esiti più infausti dell’essere esposto a maltrattamento non dipendono solo dalla gravità delle azioni, ma anche e soprattutto dal tradimento del patto di fiducia. Il bambino si aspetta infatti dal genitore protezione e cura, e se questo non avviene sperimenta una profonda delusione e intensi vissuti angosciosi che condizionano fortemente, in senso negativo, il suo percorso di crescita e di interazione con l’esterno. Le emozioni più frequenti che questi bambini provano sono la paura per l’incolumità propria, della madre, ad esempio, e dei familiari coinvolti, un doloroso senso di impotenza per l’incapacità di arginare la violenza, forte senso di colpa per non essere stati in grado di contrastarla o per la percezione di essere privilegiati perché non direttamente maltrattati, o addirittura per aver causato liti fra la madre e il padre.
Il fatto che un componente della famiglia viva in uno stato di paura nei confronti di uno o più membri del sistema determina un forte rischio di esiti psicopatologici. Non di rado nel tempo la paura si trasforma in odio, con effetti tossici sia per chi odia che per chi viene odiato. Un vissuto di questo tipo, più o meno apertamente espresso, è quasi sempre osservabile, nei casi peggiori, in disturbi di personalità di tipo borderline, antisociale, schizoide e paranoide.
Studi neurobiologici (Siegel D.J., 1999) sullo sviluppo mentale infantile evidenziano la profonda interconnessione tra mente, cervello e ambiente, ovvero esperienze interpersonali, in particolare il ruolo di queste ultime nel modellare e plasmare i circuiti cerebrali.
La mente è considerata come un insieme di parti del cervello che funzionano in sinergia tra loro e il nutrimento esperienziale è rappresentato dall’esistenza di legami in cui, attraverso la comunicazione collaborativa, si sviluppa la sintonizzazione tra la mente del bambino e quella del genitore, affinché la mente stessa acquisisca le basi e i metodi dell’auto promozione e dell’auto organizzazione. Esperienze negative, traumatiche, nell’infanzia, di esposizione alla violenza, al rischio, alla paura, non mediate da figure di attaccamento, porterebbero la mente del bambino a funzionare come un sistema non integrato.
I pattern di attaccamento primari influenzano la qualità del processamento delle informazioni lungo tutto l’arco di vita e i bambini imparano a regolare il loro comportamento anticipando la risposta del caregiver verso di loro. Questo tipo di interazione porta a costruire quelli che Bowlby chiama Modelli Operativi Interni, definiti dall’internalizzazione delle caratteristiche affettive e cognitive delle relazione primarie.
La violenza può divenire così un modello conosciuto e riconosciuto, appreso, talvolta privilegiato, quando non esclusivo, di interazione con l’altro e l’aggressività non come limite ma strumento di efficacia, l’unica alternativa possibile per risolvere tensioni, per stare all’interno delle relazione.
Secondo l’OMS (2002) la violenza assistita è uno dei fattori di rischio del diventare un domani autori di violenza o di subirla in età adulta. Dall’apprendere ad agirla al tollerarla, si parla di trasmissione intergenerazionale della violenza.

Esiste un “identikit” della famiglia violenta?
Il maltrattamento e l’abuso all’infanzia hanno tanti diversi volti, così come i profili delle famiglie nelle quali la violenza trova terreno fertile; nonostante ciò, possiamo rintracciare nella maggior parte dei casi una difficoltà dell’adulto nello sviluppare delle competenze genitoriali adeguate: qualcosa mina la capacità di sintonizzazione e accudimento, impedendo di percepire, prima ancora che soddisfare, i bisogni dei propri figli. Spesso in queste famiglie i genitori sono sintonici con i propri comportamenti, viene meno la consapevolezza di fare male, si tende a non vedere o negare il danno arrecato, schiavi di una coazione a ripetere che inibisce la possibilità di chiedere aiuto.
Da un punto di vista clinico è importante ascoltare il bambino e sostenere i genitori, costruendo un contesto in cui la rinarrazione delle situazioni di esposizione all’abuso favorisca la condivisione di tutte le informazioni necessarie ad elaborare gli eventi e risignificarli. In tutte le situazioni familiari in cui è possibile, i figli possono essere accompagnati, insieme ai genitori, a trovare forme di riparazione degli errori e a con-dividere ciascuno i significati dell’altro nell’ottica di un’intersoggettività che preveda il conflitto ma non la sopraffazione.
In conclusione, fare esperienza della violenza produce un trauma acuto nel bambino, che paralizza, toglie la forza di reagire, lascia sopraffatti, un trauma che è stato definito “il dolore degli impotenti”, mandando in frantumi la fiducia nella certezza che gli adulti si prendano cura di lui, con conseguenze a breve, medio e lungo termine sullo sviluppo.
Le “infanzie infelici” generano individui e relazioni sofferenti a cui è possibile e doveroso offrire l’opportunità di ri-scrivere un nuovo, diverso, personale copione, per sé e per le generazioni a venire, consapevoli, come clinici, che il genitore che abbiamo di fronte è, nel presente padre quanto nel passato è stato figlio. L’obiettivo è sciogliere i nodi che legano questi due ruoli per interrompere la trasmissione intergenerazionale di modelli disfunzionali di genitorialità.
Sara Legrottaglie
Psicologa, Psicoterapeuta